Nec cum subsiliunt ignes ad tecta domorum
et celeri flamma degustant tigna trabesque,
sponte sua facere id sine vi subiecta putandum est.
Quod genus e nostro cum missus corpore sanguis
emicat exultans alte spargitque cruorem.
II, vv. 191-195 (p. 143)
Già dal III secolo a.C. l'incremento demografico della popolazione aveva condotto ad un radicale cambiamento dell'urbanistica romana, tanto è vero che si era abituati a vedere anche edifici composti da tre piani. Sebbene dai versi citati non si evinca la struttura dell'abitazione tipica romana, viene menzionato un particolare rilevante: i tetti costituiti da assi e travi. Nei tempi arcaici, il tetto era costituito fondamentalmente da stoppie, ovvero da residui di colture erbacee, tipicamente frumento, rimasti sui campi posteriormente alla mietitura. Verso la metà del VI secolo a.C., si iniziano ad impiegare per la prima volta tegole e coppi, tipico elemento laterizio dalla forma curva utilizzato fino ad oggi. La concezione sempre più moderna della ripartizione interna dell'abitazione, conduce alla costituzione di tetti divisi in falde; di particolare interesse fu l'importazione dall'Etruria della casa ad atrio: essa era costituita da un'apertura rettangolare, il compluvium, generata dall'incrocio delle quattro falde del tetto (atrium tuscanicum), sostenute da delle travi orizzontali. La grande quantità di legno, impiegata per alleggerire le strutture, era spesso causa di numerosi incendi. Generalmente i tetti erano a spiovente, in modo tale da convogliare l'acqua piovana nell'impluvium, un bacino di raccolta collegato ad una cisterna sotterranea.
Foto 1 Ricostruzione della villa romana Settefinestre al museo archeologico di Rosignano
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