martedì 22 aprile 2014

Ponti di barche

Perfino colui, che una via lastricò sul grande mare, e offrì alle legioni un sentiero per camminare sull’abisso, e insegnò a passare a piedi sui gorghi salati, e schernì il fragore del mare calpestandolo con i cavalli, vide fuggire la luce e spirò l’anima dal corpo morente.

Ille quuoque ipse, viam qui quondam per mare magnum
stravit iterque dedit legioni bus ire per altum
ac pedibus salsas docuit super ire lacinas
et contempsit equis insultans murmura ponti,
lumine adempto animam moribundo corpore fudit.

III, vv. 1029-1033 (pp. 257-259)

Attraverso una metafora, Lucrezio allude a Serse, il re di Persia che, nella sua spedizione contro la Grecia costruì un ponte di barche sull’Ellesponto (Dardanelli). Questo tipo di struttura era costituita principalmente da barche legate le une alle altre, in modo tale da formare un ponte laddove ve ne era una necessità solitamente temporanea. Il vantaggio di tale costruzione consisteva nel fatto che, nel caso salissero le acque, anche il ponte si alzava, in modo tale da poter permettere in ogni caso di guadare il fiume. L’altra agevolazione consisteva nel fatto che in ambiente bellico, una volta utilizzato poteva facilmente essere distrutto per impedire il passaggio del nemico.



Figura 1 bassorilievo sulla Colonna di Marco Aurelio (176-192 d.C.) raffigurante un ponte di barche realizzato dall’esercito romano

L’invenzione del ponte di barche ha origine antichissime: le prime popolazioni che si reputa abbiano avuto questa invenzione ingegneristica furono quelle cinesi mentre, nel mondo latino, si ha una speciale testimonianza, posteriormente a Lucrezio, attraverso Plinio il Vecchio. Quest’ultimo testimonia la costruzione di un ponte fatto di barche e botti sullo stretto di Messina, voluta dal console Lucio Cecilio Metello nel 251 a.C., per trasportare dalla Sicilia centoquaranta elefanti sottratti ai Cartaginesi durante la battaglia di Palermo.
 

 Figura 2 veduta del ponte in chiatte, per l’attraversamento del fiume Oglio tra Canneto e Piadena (circa 1945)

sabato 19 aprile 2014

I carri armati di falce: tecnologie dall'oriente

Dicono che i carri falcati, caldi di strage confusa, spesso recidano le membra così d'improvviso, che si vede sussultare per terra ciò che dagli arti è caduto reciso, mentre intanto la mente e la coscienza dell'uomo per la rapidità della piaga non può sentire il dolore, e insieme perché nell'ardore della pugna è assorta la mente:

Falciferos memorant currus abscidere membra
saepe ita de subito permixta caede calentis, 
ut tremere in terra videatur ab artubus id quod
decidit abscisum, cum mens tamen atque homini vis
mobilitate mali non quit sentire dolorem
et simul in pugnae studio quod dedita mens est:

III, vv. 642-647 (p. 237)

In questa macabra descrizione che Lucrezio fa al fine di sostenere il fatto che l'anima non sopravviva al corpo, vengono nominati i carri armati di falce. Tali veicoli bellici non furono mai utilizzati né dall'esercito romano né da quello greco: erano un'invenzione orientale. Essi consistevano in carri da guerra a due o quattro ruote dotati di lame taglienti sulla testa e sul timone, sui mozzi delle ruote e sulle sponde. Furono usati già in epoche antichissime, come testimonia la mezzaluna ferile, e divennero spesso protagonisti di narrazioni più o meno fantasiose, come la supposizione che il sovrano egizio Ramses II ne possedesse ventisettemila. 

 Figura 1 La carica dei carri falcati persiani nella battaglia di Gaugamela Andre Castaigne (1898-1899)

Numerose sono le testimonianze scritte, tra le quali spiccano quella di Livio (IIIVII, 41, 7), dalla quale si evince che se ne servì il re Antioco di Siria, che governò dal 224 (o 223) al 3 luglio 187 a.C., e quella di Vegezio, nella sua Epitoma rei militaris (III, 24). Riportiamo, per il suo notevole interesse, in traduzione italiana, l'accurata descizione tecnica che condusse quest'ultimo.
 
Il re Antioco e Mitridate utilizzarono in guerra quadrighe falcate. Queste dapprima incussero grande terrore, ma in seguito divennero oggetto di derisione. È infatti difficile trovare un terreno completamente pianeggiante per il carro falcato, il minimo ostacolo gli impedisce la via e viene catturato se solo uno dei due cavalli viene colpito o ferito. Ma la maggior parte di essi furono annientati da questa tecnica adottata dall'esercito romano: non appena si ingaggiava la battaglia, i Romani improvvisamente lanciavano su tutto il campo triboli, contro i quali le quadrighe in corsa scontrandosi si distruggevano. Il Tribolo è una macchina da difesa formata da quattro pali, che, in qualsiasi modo si scagli, sta su tre piedi ed è pericolosa per il quarto piede, che sta dritto. 

Figura 2 Carro falcato in un disegno di Leonardo da Vinci






sabato 12 aprile 2014

L'illuminazione delle tenebre


È facilissimo per noi spiegare con il ragionamento perché il fuoco del fulmine sia molto più penetrante del nostro, che scaturisce dalle fiaccole terrestri. […] Inoltre la luce attraversa il corno, ma la pioggia è respinta.

Perfacile est animi ratione exsolvere nobis
quare fulmineus multo penetralior ignis
quam noster fuat e taedis terrestribus ortus.
[…]
Praeterea lumen per cornum transit, at imber
respuitur.


II, vv. 381-383; 388-389 (pp. 153-155)
 
L’evoluzione umana ha condotto la nostra specie a cercare un ruolo attivo nei confronti dei ritmi ordinari della natura. L’interruzione dell’attività a causa del sopraggiungere della notte, limitava notevolmente le potenzialità che potevano emergere, pertanto dall’alba dei tempi l’uomo ha cercato un metodo per ovviare a ciò: l’utilizzo del fuoco come fonte di illuminazione. Nelle brevi citazioni riportate vengono nominate due antiche invenzioni: la fiaccola e la lanterna (che Lucrezio nomina attraverso una metonimia, dacché le lanterne avevano spesso le pareti di corno). La prima consisteva in un lume fatto con materie resinose, diventato famosissimo per quanto riguarda le olimpiadi, sin dalla Grecia antica.

Figura 1 Portatori di fiaccole olimpiche disegnati su un antico vaso greco
 
Per quanto riguarda invece le lanterne, esse furono per la prima volta nominate dal poeta greco Teopompo e dal filosofo Empedocle di Agrigento. L’unica rappresentazione egizia conservatasi non è molto distante dalla descrizione che ne fa Giovanni nel Nuovo Testamento. In generale, nell’antichità, l’utilizzo delle lanterne era destinato agli auguri per l’interpretazione degli auspicia nel cielo notturno.  
 
Figura 2 Dipinto del filosofo greco Diogene di Sinope che impugna una lanterna (Diogene cerca l’uomo, Johann Heinrich Wilhelm Tischbein)

martedì 8 aprile 2014

La città vista dall'alto

Ma quando il fuoco si avventa ai tetti delle case e con la rapida fiamma lingueggia fra le assi e le travi, non è a credere che lo faccia da solo, senz'essere spinto in alto da una forza: come quando il sangue espulso dal nostro corpo sprizza in alto pulsando e sparge l’umore sanguigno.

Nec cum subsiliunt ignes ad tecta domorum
et celeri flamma degustant tigna trabesque,
sponte sua facere id sine vi subiecta putandum est.
Quod genus e nostro cum missus corpore sanguis
emicat exultans alte spargitque cruorem.


II, vv. 191-195 (p. 143)
 
Già dal III secolo a.C. l'incremento demografico della popolazione aveva condotto ad un radicale cambiamento dell'urbanistica romana, tanto è vero che si era abituati a vedere anche edifici composti da tre piani. Sebbene dai versi citati non si evinca la struttura dell'abitazione tipica romana, viene menzionato un particolare rilevante: i tetti costituiti da assi e travi. Nei tempi arcaici, il tetto era costituito fondamentalmente da stoppie, ovvero da residui di colture erbacee, tipicamente frumento, rimasti sui campi posteriormente alla mietitura. Verso la metà del VI secolo a.C., si iniziano ad impiegare per la prima volta tegole e coppi, tipico elemento laterizio dalla forma curva utilizzato fino ad oggi. La concezione sempre più moderna della ripartizione interna dell'abitazione, conduce alla costituzione di tetti divisi in falde; di particolare interesse fu l'importazione dall'Etruria della casa ad atrio: essa era costituita da un'apertura rettangolare, il compluvium, generata dall'incrocio delle quattro falde del tetto (atrium tuscanicum), sostenute da delle travi orizzontali. La grande quantità di legno, impiegata per alleggerire le strutture, era spesso causa di numerosi incendi. Generalmente i tetti erano a spiovente, in modo tale da convogliare l'acqua piovana nell'impluvium, un bacino di raccolta collegato ad una cisterna sotterranea.

Foto 1 Ricostruzione della villa romana Settefinestre al museo archeologico di Rosignano

 

sabato 5 aprile 2014

Un dardo per anticipare Newton

E poniamo ora che sia limitato tutto lo spazio: se uno corresse al suo termine, alla riva estrema, e scagliasse un dardo volante, vuoi tu che questo, vibrato con forza gagliarda, vada dove è stato lanciato e voli lontano, o credi che qualche cosa lo ostacoli e gli si opponga?

Praeterea si iam finitum constituatur
omne quod est spatium, siquis procurrat ad oras
ultimus extremas iaciatque volatile telum,
id validis utrum contortum viribus ire
quo fuerit missum mavis longeque volare,
an prohibere aliquid censes obstareque posse?

I, vv. 968-973 (p. 123)

Il dardo, nominato in questo contesto dall'autore, è un'arma antichissima, risalente alla Preistoria. Ciò che desta particolare interesse è il fatto che l'arco e le frecce furono uno strumento il cui primo utilizzo da parte dell'esercito romano risale non a caso ai tempi di Mario, gli stessi in cui è datata l'opera lucreziana. In precedenza i dardi venivano lanciati a mano con una notevole minore precisione; L'uso di quest'arma da getto è testimoniato da tutte le popolazioni italiche precedenti i latini, tanto che il termine sagitta proviene etimologicamente dalla lingua etrusca.

 Documento 1 Punte di frecce militari romane in bronzo

Al di là del fatto che venga menzionato questo strumento, di sicuro non uno tra i più "tecnologici", Lucrezio sembra anticipare miracolosamente il primo principio della dinamica. Difatti la sua asserzione consiste nell'affermare che un dardo scagliato, continuerà incessantemente a percorrere spazio se non vi si oppone qualche altro oggetto ad intercedergli la traiettoria. Nel 1687, nel libro Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, Newton affermò che un corpo mantiene il suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme finché una forza non agisce su di esso. Ovviamente Lucrezio non era in grado di considerare che una forza opponente al moto potesse essere semplicemente la gravitazione o l'attrito viscoso dell'aria.

venerdì 4 aprile 2014

Macinare il grano nell'antica Roma

Sarebbe giusto allora che anche i chicchi di grano, quando sono frantumati dalla forza minacciosa del sasso, lasciassero sovente qualche traccia di sangue o d'altra cosa che trae alimento dal nostro corpo; e quando li schiacciamo con una pietra sulla pietra, dovrebbe colarne umore sanguigno.

Conveniebat enim fruges quoque saepe, minaci
robore cum saxi franguntur, mittere signum
sanguinis aut aliquid, nostro quae corpore aluntur,

cum lapidi in lapidem terimus, manare cruorem.

I, vv. 881-884 (p. 119)

Nell'intento di confutare la teoria delle omeomerie del filosofo greco Anassagora, il poeta cita un'attività molto particolare: quella di macinare il grano. Non è un caso se la tecnologia inerente il trattamento del frumento sia una di quelle che abbia impiegato le migliori abilità ingegneristiche dal momento che questa mansione è di vitale importanza per il genere umano, si situa alla base dei fabbisogni per la sopravvivenza. Sebbene però la civiltà latina si sia sempre distinta per il proprio avanzamento tecnologico, ai tempi della repubblica romana nei quali fu scritto questo poema didascalico, non esistevano ancora i mulini ad acqua che si svilupperanno più tardi, diventando comuni in età imperiale. Dalla preistoria all'età di Lucrezio, la produzione di farina avveniva schiacciando i semi tra due pietre levigate, con l'ausilio della sola forza muscolare o di animali. Il modello più comune era quello che prevedeva l'impiego di due macine, una fissata al terreno ed una sovrapposta a questa a forma di clessidra in cui era inserita una trave, spesso e volentieri spinta da degli schiavi.

Documento 1 Sezione del mulino a clessidra (Dyer, Pompeii, London, 1868, p. 356)

Foto 1 Il panificio di Pompei

giovedì 3 aprile 2014

Tecnologia ed inganno

E se non fosse esistita la materia dei corpi, né il luogo e lo spazio in cui tutte le cose si attuano, mai la fiamma d'amore destata dalla bellezza di Elena divampando profonda nel petto del frigio Alessandro avrebbe attizzato le corrusche battaglie della guerra crudele, né di nascosto ai troiani il ligneo cavallo avrebbe incendiato Pergamo col parto notturno di greca progenie;

Denique materies si rerum nulla fuisset
nec locus ac spatium, res in quo quaeque geruntur,
numquam Tyndaridis forma conflatus amoris
ignis, Alexandri Phrygio sub pectore gliscens,
clara accendisset saevi certamina belli,
nec clam durateus Troianis Pergama partu
inflammasset equus nocturno Graiugenarum;

I, vv. 471-477 (p. 95)
 
Illustrando la teoria secondo la quale tutto ciò che non è né un corpo né vuoto è un accidente, Lucrezio ripercorre brevissimamente alcuni temi cari alla cultura classica. In particolare, ciò su cui è interessante soffermarsi è la citazione circa il noto cavallo di Troia, per la prima volta menzionato in forma scritta nel poema epico di Omero, l'Odissea. Che cosa c'era di più tecnologico, per quei tempi, del costruire una vera e propria macchina da guerra che espugnasse l'inattaccabile città di Troia? In questa impresa vengono a fondersi le avanzate abilità ingegneristiche con l'astuzia mentale. Ricordiamo che anche se questo spunto tecnologico proviene da Lucrezio ci stiamo riferendo ad un evento databile intorno al 1250 a.C., come si può evincere dagli scritti di Erodoto. Costruire col legno un cavallo colossale richiedeva già l'abilità di lavorare su grande scala e l'accortezza di pensare quanto l'avanzamento tecnologico potesse procurare potere a chi lo detenesse. Nondimeno, da questo fatto si può percepire come, ancora oggi, le nuove tecnologie possano essere usate con un triste scopo. 
 
Documento 1 L'entrata del cavallo di Troia in un dipinto di Tiepolo